Curiosità

I traduttori

di Seba Pezzani

D’accordo, non è la prima volta che lo dico. Ma, dopo circa venticinque anni di traduzioni, certi stereotipi del mio mestiere hanno finito per farmi venire l’orticaria: non è vero che tradurre significa tradire, mentre trovo che non si possa prescindere da un concetto semplice quanto controverso, ovvero una traduzione per essere letteraria deve essere letterale. Insomma, il traduttore non si deve inventare nulla; non è suo compito essere creativo, meno che mai ‘scrivere’, per lo meno quando traduce. Il testo è già scritto e il traduttore si deve limitare a svolgere il suo lavoro: tradurlo. Ergo, in sintesi, tradurre significa minimizzare il danno.

Se, invece, l’editore di un testo letterario decide di mettersi in proprio e di contravvenire a tali principi, nemmeno il traduttore animato dalle migliori intenzioni può salvare il salvabile. Ricordo un episodio che mi capitò quasi agli esordi della mia carriera, quando l’editor di una nota casa editrice, dopo aver criticato aspramente la mia traduzione di un romanzo americano, mi disse che, con un po’ di tempo in più, mi avrebbe ‘accompagnato’ nel perfezionamento di quello che, di fatto, riteneva un romanzo inferiore alle attese. Ma l’aveva letto prima di acquisirne i diritti? La risposta, naturalmente, non serve esplicitarla. Perfezionare cosa? I dialoghi, tanto per cominciare: troppo poco consoni ai personaggi. Da rafforzare, insomma, con interiezioni e, perché no, qualche improperio sistemato nei punti giusti. Orrore! Già, al punto che, quando i casi della vita mi fecero incontrare di persona l’autore – che nel frattempo si era autonomamente premurato di inviare una lettera all’editore per complimentarsi per l’ottima traduzione, dato che parlava e leggeva correntemente l’italiano –, e gli raccontai l’episodio, mi disse che era una fortuna che la casa editrice non avesse modificato lo stile dei suoi dialoghi perché, in caso contrario, lui le avrebbe fatto causa!

Ma, è risaputo, al brutto non v’è mai limite e l’orrore ama spostare l’asticella più in alto. Anzi, più in basso.

Pochi giorni fa, l’uscita di un romanzo tedesco ha fatto gridare allo scandalo. Anzi, ha fatto gridare vendetta. Per lo meno al sottoscritto. Il romanzo in questione è Un cazzo ebreo, della tedesca Katharina Volckmer (La Nave di Teseo), la storia di una donna di origini tedesche che si confessa sul lettino di uno strizzacervelli ebreo, raccontando, a quanto sembra, turbamenti di natura intima, indicibili ossessioni erotiche. A quanto sembra, dicevo, perché non ho letto il libro e credo proprio che non lo leggerò. Se mai avessi potuto nutrire interesse per questo romanzo, l’intrigo è svanito del tutto nei meandri insondabili della scelleratezza di chi ha scelto di intitolarne in questo modo la versione italiana, sicuramente contando sul fatto che un simile ardire avrebbe incuriosito qualcuno. Il titolo originale, in effetti, è The Appointment. Ma davvero il mondo dei lettori italiani è messo talmente male che uno degli editori indipendenti più illustri pensa di guadagnarsene una manciata con una trovata così gioviale? Semmai, verrebbe quasi voglia di non leggere più nulla di questo marchio dopo una scelta così discutibile.

Se La Nave di Teseo, casa editrice che aspira a collocarsi sugli scranni nobili del mercato letterario italiano, non sa davvero fare di meglio che ricorrere a uno stratagemma di marketing così poco elegante, per non dire apertamente e scientemente volgare, significa che siamo alla frutta o, forse, all’ammazzacaffè. Non lamentiamoci se gli italiani non leggono. A questo punto se ne capisce benissimo il motivo. Io, da lettore, sono indignato e mi sento preso per… i fondelli. Meglio attenuare i toni, in questo caso.

Il titolo italiano del romanzo della Volckmer è talmente indecente che ho deciso di non ripeterlo. Eppure, dirà qualcuno provocatoriamente, non è la prima volta che viene utilizzato un escamotage, magari pruriginoso come questo, nell’intitolare un’opera in maniera da destare l’attenzione di un pubblico evidentemente considerato sonnacchioso. Diversi anni fa, tradussi un libro che, ahimè, non vide mai la luce, dato che, nel frattempo, la casa editrice aveva chiuso i battenti. Non era esattamente un testo poetico e nemmeno un testo di narrativa. Era una sorta di trattatello di sessuologia, scritto da Linda Lou Paget, l’autrice del fortunatissimo Fallo felice (il titolo originale era How to be a great lover). Se non avessi tradotto quel trattatello, probabilmente non avrei mai saputo dell’esistenza di un libro intitolato Fallo felice, naturalmente non il titolo originale ma, se non altro, una scelta leggera e certamente non volgare: Fallo felice, in fondo, è un peccato veniale, trattandosi di un gioco di parole che non rischia mai di ammantarsi di empietà. E, lo ammetto, ha un che di brillante.

In Italia, il primato e, in qualche modo, pure la primogenitura della storpiatura dei titoli stranieri è appannaggio del mondo del cinema. Gli esempi in tal senso si sprecano, ma mi viene in mente un casus belli davvero degno di nota. Vi ricordate il film western Rio Bravo (1952), con John Wayne e Maureen O’Hara, per la regia di John Ford? Il titolo originale era Rio Grande (peraltro nome con cui in Europa si conosce il fiume che separa Stati Uniti e Mexico), ma qualcuno ebbe la trovata geniale di sostituire ‘Grande’ con ‘Bravo’. Ma perché? direte voi. Già. Nel 1959 uscì un altro western destinato a entrare nella storia, quello che tutti conoscono come Un dollaro d’onore, diretto da Howard Hawks e con Dean Martin e, soprattutto e ancora una volta, John Wayne. Peccato che il film di Hawks, sì, si intitolasse Rio Bravo. Ma il danno era già stato fatto e quel titolo non lo si sarebbe potuto riutilizzare.

Di esempi simili ce ne sarebbero decine, ma proprio in questi giorni, sempre lavorando a una traduzione, mi sono imbattuto in un film del 1967, diretto da Mel Brooks e interpretato da Gene Wilder. Il film in questione si intitola The Producers e, ancora una volta, qualcuno ha pensato di dare un tocco di genio italico, si fa per dire, alla pellicola, che da noi è nota come Per favore, non toccate le vecchiette. Orrore bis!

La scelta scellerata di storpiare i titoli, da sempre pezzo forte del mondo cinematografico italiano, è un vezzo che ha ormai abbondantemente contagiato il settore editoriale. Pescando tra i miei ricordi personali, mi viene in mente una mia traduzione di un romanzo oscuro ma splendido di Joe R. Lansdale: Waltz of shadows. Ben conoscendo la propensione del suo editore italiano del tempo a intervenire a gamba tesa nella scelta del titolo, mi mossi in anticipo e lo supplicai di fare la cosa più semplice e giusta: lasciare il titolo esattamente come nell’originale. ‘Il valzer delle ombre’ avrebbe avuto in sé un che di poetico che, in fondo, si sposava alla perfezione con le intenzioni dell’autore. D’altro canto, il titolo lo aveva scelto lui! Niente da fare. Come temuto, il romanzo uscì con il titolo: Il valzer dell’orrore. Orrore tris! Pare che agli editori italiani la parola orrore piaccia assai. Peccato che con il contenuto di Waltz of shadows non c’entri assolutamente nulla. Ovviamente, ho più che il sospetto che l’editore abbia cercato di attrarre qualche appassionato di horror e, magari, pure qualche fan di Stephen King (soprannominato, al tempo, ‘maestro dell’horror’) e figura a cui più volte Joe R. Lansdale è stato accostato, addirittura con l’etichetta ‘lo Stephen King del Texas Orientale’. Per restituire giustizia alla storpiatura di uno splendido titolo, qualche tempo dopo scrissi una canzone intitolata Waltz of shadows e finita su Folk’n’Roll, primo CD della mia band RAB4.

E che succede se a un autore un titolo piace talmente tanto che decide di usarlo per un suo libro nonostante qualcuno altro lo abbia giù sfruttato per una sua opera? Nessun problema: lo usa. È esattamente quanto successo con The power of the dog di Don Winslow, forse il suo romanzo di maggior successo, uscito negli USA nel 2005. Peccato che esistesse già un altro romanzo, peraltro splendido, con quello stesso titolo: The power of the dog di Thomas Savage è un western crepuscolare del 1967, un romanzo consigliatissimo, una fosca storia sulla difficoltà dei legami familiari nell’implacabile scenario del Montana del 1927. Tutto sommato è un bene che rispettivamente Einaudi (il libro di Winslow è uscito in Italia nel 2009) e Neri Pozza (quello di Savage è uscito in Italia nel 2017) abbiano deciso di non cercare soluzioni ardite e abbiano scelto di far uscire i due romanzi con lo stesso titolo, come era successo alle due edizioni originali: Il potere del cane. E, se mai un lettore dovesse acquistare uno dei due pensando di aver acquistato l’altro – al di là delle enormi differenze stilistiche – tutto sommato non sarebbe un delitto: sono due ottimi romanzi di due bravissimi autori.


Nato a Fidenza, Seba Pezzani è da quasi trent’anni attivo come cantante e chitarrista, nonché autore. Laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Bologna, da sempre è appassionato di letteratura anglo-americana. Affianca all’attività musicale quella di traduttore e interprete free-lance dall’inglese. Fra gli artisti al cui fianco ha operato, figurano Joe R. Lansdale, Jeffery Deaver, Henry Winkler, Anne Perry, Tom Franklin, John Harvey, Ruth Rendell, Lawrence Block. Ha collaborato attivamente con la pagina culturale de l’Unità e con quella de Il Giornale e con il portale di informazione Globalist.it. Ha pubblicato il saggio Profondo Sud. Un viaggio nella cultura del Dixie (Giulio Perrone Editore), i libri di viaggio Istruzioni per l’USA (Oltre Edizioni) Americrazy (GL Editore) e il romanzo Tuttifrutti (Passigli Editori), scritto a quattro mani insieme all’amico giornalista Luca Crovi. È attivo sul fronte musicale con i RAB4, band di rock delle radici americane, che tra le varie esperienza vanta due tour negli USA, oltre che diverse incursioni in Europa. È direttore artistico del festival internazionale musicale-letterario “Dal Mississippi al Po” di Piacenza.

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